Da un ventennio a questa parte tutte le serie tv sfruttano l’effetto cliffhanger per tenere incollati gli appassionati e indurli a continuare a vedere tutta la stagione, ma come si è arrivati a questa soluzione? No, la colpa non è di JJ Abrahams, ma di una psicologa vissuta 100 anni fa.
Tra gli anni ’80 e ’90 gli unici contenuti che utilizzavano l’effetto cliffhanger erano alcuni film che venivano chiamati con “finale aperto”. Si trattava alcune volte di una scelta artistica volta a spingere gli spettatori a scegliere la conclusione che preferivano in base a quanto visto, in altri di un espediente per fare capire che la storia non era conclusa e che dopo qualche anno sarebbe uscito un altro film della saga.

Le serie tv, invece, utilizzavano una struttura procedurale: in pratica ogni puntata raccontava un episodio a se stante o al massimo che si concludeva al massimo in due puntate (chiamata puntata doppia) quando il tempo per raccontare tutto non era sufficiente. Tuttavia nel corso delle stagioni veniva portata avanti anche una trama più ampia, sulla quale venivano aggiunti dettagli di tanto in tanto e che giungeva a compimento alla fine della stagione o dell’intera serie.
Una simile struttura era comoda poiché evitava di doversi scervellare sulla coerenza narrativa di ogni episodio e dei dettagli, ma ad un tratto si è scoperto che adottare una struttura continuativa aveva maggiore presa sul pubblico. La serie che è diventata simbolo di questo passaggio è Lost di JJ Abraham, in cui però gli sceneggiatori hanno abusato dell’effetto cliffhanger per introdurre sempre nuovi elementi misteriosi, trovandosi poi in difficoltà nel rimettere insieme tutti gli spunti lanciati nel corso delle 6 stagioni.
Il motivo per cui le serie tv utilizzano questa struttura oggi, però, non è da collegare a quell’intuizione dei produttori di Lost, i quali hanno semplicemente riproposto uno schema vecchio quasi quanto il cinema: nel 1913, ad esempio, esisteva una serie intitolata ‘The Adventure of Kathlyn’ trasmessa nei cinema che chiudeva ogni puntata con un cliffhanger.
La scoperta della psicologa lituana: il nostro cervello non sopporta che qualcosa non si concluda
Già agli albori del cinema, come visto, si utilizzava uno stratagemma simile per invogliare il pubblico a tornare in sala e tutte le soap opera prodotte nei decenni hanno continuato a sfruttare questo meccanismo sin da principio. Ciò che dobbiamo chiederci adesso è per quale motivo noi siamo così attratti da questo effetto cliffhanger?

La spiegazione la trovò nell’ormai lontanissimo 1927 la psicologa lituana Bluma Zeigarnik. L’idea le venne da una discussione avuta con un collega 7 anni prima, quando questo gli fece notare che i camerieri ricordavano perfettamente gli ordini da completare, ma un istante dopo averli completati se ne dimenticavano.
Con lo scopo di comprendere il perché di quel meccanismo, la studiosa approfondì la questione e scoprì che il nostro cervello mantiene uno stato di costante tensione finché non completiamo il compito che dobbiamo svolgere. A mantenere vivo il ricordo di ciò che dobbiamo fare e anche il desiderio di scoprire la conclusione della storia è un bisogno inconscio radicato nel nostro cervello .
Questo vale dunque per le serie tv ed è alla base di quel meccanismo conosciuto come ‘Binge Watching’ diventato così diffuso quando Netflix ha fatto la sua comparsa. Il cliffhanger dunque non è altro che un modo per sfruttare quello che in psicologia si chiama da quasi 100 anni “Effetto Zeigarnik”.





