La differenza tra buono e cattivo cinema passa spesso dalla scelta delle inquadrature, da come queste sottolineano gli eventi e raccontano in pochissimo tempo uno spaccato sociale, un momento storico, uno stato emotivo. Proprio grazie ad una geniale intuizione di un regista risalente a quasi 100 anni fa, oggi il modo di fare film si è evoluto come lo conosciamo.
Sono tante le componenti che influiscono nella riuscita di un film. Non si può prescindere da una buona narrazione, ossia il modo in cui l’idea originale viene raccontata attraverso i dialoghi ed il susseguirsi degli eventi, è necessario poi che gli attori riescano a calarsi nei personaggi per renderli credibili e dunque fare immedesimare il pubblico, l’audio dev’essere di ottima qualità, è necessario che la colonna sonora si fonda in maniera perfetta con il narrato e che la fotografia restituisca a primo acchito l’intenzione emotiva e narrativa di ogni singolo istante.
Affinché questi elementi possano effettivamente risaltare, però, è primariamente importante che il regista riesca a dare la giusta prospettiva delle cose attraverso l’inquadratura. Il modo in cui il contesto viene catturato dalla camera è il principale strumento di comunicazione del cinema, ciò che rende unico questo media e che lo eleva ad Arte separata e complementare all’opera teatrale.
Ciò che in un teatro viene esclusivamente descritto a parole o lasciato all’immaginazione del pubblico, nel cinema può essere narrato per immagini. Una singola inquadratura ci può offrire un sunto visivo di decine di pagine di un libro. Tale potere è stato poi incrementato dall’evoluzione della tecnica di montaggio, poiché grazie al lavoro di post-produzione i registi hanno la possibilità di pensare in prospettiva ciascuna delle inquadrature ideate.
Pensate ad esempio all’inizio di Shining, quando la discussione tra il protagonista ed il preside della scuola si conclude e lo stacco ci porta ad osservare un’auto che percorre un lungo sentiero montano alberato. In quel modo il regista non ci mostra solo il viaggio compiuto per raggiungere l’Overlook Hotel, ma ci spiega che il tempo è trascorso.
Di scene iconiche come quella appena ricordata la storia del cinema è piena, ma se l’idea di offrire dinamicità alla narrazione per immagini è diventata un must nell’industria lo si deve ad un’intuizione avuta dal regista americano William “Wild Bill” Wellmann nel lontanissimo 1927, quando la settima arte era solo agli albori ed il sonoro nelle pellicole era stato appena introdotto (sarà centrale nelle produzioni solo a partire dagli anni ’30).
Il regista di Brooklyn aveva bisogno di un’inquadratura dinamica di un caffè di Parigi, in modo tale da far capire rapidamente allo spettatore che tipo di atmosfera si respirasse in un simile contesto, fare una panoramica che mostrasse i tavoli imbanditi, i militari ubriachi e le ballerine che si esibivano senza dover operare stacchi, ciò che oggi chiamiamo “Piano sequenza”.
Il problema era che all’epoca non esistevano i dolly – i carrelli su cui si montano le telecamere per seguire i protagonisti che camminano o per girare una scena come quella sopra descritta muovendo la camera – e di certo non esistevano delle steadycam – quelle che possono essere ancorate al corpo del regista con un supporto meccanico – talmente piccole da poter passare sopra i tavoli.
Così Wellman trovò una soluzione ingegnosa, fece ancorare la telecamera ai binari che si trovavano sul soffitto dello studio e girò la scena sottosopra. Solo successivamente, in fase di montaggio, le immagini sono state capovolte. La sequenza, per la prima volta vista in una pellicola, è diventata una base delle tecniche registiche di oggi perché l’idea piacque al punto da far sviluppare tecnologie che permettessero di realizzarla senza doversi inventare dei miracoli.
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